Vicenzaoro Highlights, Gennaio 2025: La Visione Illuminata di Raselli
Andrea Raselli, Ceo del Gruppo Errepi e protagonista del talk organizzato ieri da Assogemme, ci parla di valore del prodotto, di stile italiano e di come rendere attraente il lavoro artigianale
La nostra azienda ha sempre lavorato conto terzi. Inizialmente operavamo all’ingrosso per i Paesi arabi, poi ci siamo specializzati nella produzione per i grandi marchi. Io ho iniziato da piccolo, riportando le misure delle pietre sulle bustine, perché le vacanze organizzate da mio padre erano sempre legate al mercato delle pietre. Dopo l’università, ho iniziato a lavorare a Valenza, ma il mio vero ingresso in azienda è avvenuto nei primi anni 2000 con l’apertura di una sede in Cina. Il mio obiettivo era internazionalizzarla.
Alla Cina sono seguite aperture a Parigi, negli Stati Uniti e a Taiwan. Abbiamo così acquisito competenze in settori a noi sconosciuti: taglieria, lavorazioni in titanio e in platino. Successivamente, abbiamo ampliato le nostre capacità produttive con la sede a Taiwan, dove ci siamo dedicati al controllo numerico di materiali non preziosi, destinati sia alla gioielleria che all’orologeria. Abbiamo anche raddoppiato la superficie utile a Valenza e aperto una taglieria di diamanti in India.
Oggi rimaniamo produttori puri ma integrati, con un fatturato equamente suddiviso tra Stati Uniti, Europa e Asia, mantenendo una produzione sempre di qualità medio-alta, anche per prodotti da ottanta euro.
Ha senso parlare ancora di "made in Italy"?
Sì, ma solo se consideriamo che il cliente americano mi chiede di produrre un gioiello perché l’Italian touch non si trova da nessun’altra parte. Questo vale anche per le soluzioni tecniche e per la solida tradizione italiana, che resta un vantaggio competitivo importante. Tuttavia, quando parliamo di “made in Italy”, non dobbiamo dimenticare che la materia prima, ossia pietre e metalli, non è di origine italiana. Il valore dell’italianità risiede nella capacità di trasformare questi materiali in vere eccellenze.
Come è cambiata la gioielleria negli ultimi 50 anni?
In passato, il valore di un brand si misurava sul prodotto, che riceveva la massima attenzione. I marchi più prestigiosi al mondo sono diventati famosi proprio per questo. Poi è arrivato il marketing, con un approccio più orientato al posizionamento dei prezzi e alla comunicazione.
Oggi, forse anche a causa delle politiche sui prezzi, bisognerebbe tornare alla fase iniziale: se si chiede un prezzo molto alto, è necessario offrire qualcosa di veramente eccellente e innovativo rispetto alla concorrenza.
Quanta consapevolezza c’è nei giovani riguardo al valore di questo mestiere?
Poca. Bisogna promuoverlo, perché quando ne viene percepito il valore, ci si innamora. Speriamo che la perdita di indipendenza delle realtà produttive più piccole non porti allo svuotamento di questo nostro valore aggiunto.
La sfida più grande oggi è trovare figure professionali a vari livelli per supportare questa eccellenza, ma la carenza è devastante. La campagna acquisti dei grandi gruppi a Valenza lo dimostra. Chi vuole preservare le proprie maestranze deve agire rapidamente o rischia di scomparire.
A Parigi c’è un approccio diverso: si esalta il valore dell’artigiano, mentre in Italia l’orafo è spesso paragonato a un metalmeccanico.
Quali soluzioni vede per il futuro?
Se il lavoro artigianale deve competere, deve diventare più attrattivo, anche grazie a strumenti informatici moderni, accessibili online e in linea con la mentalità dei giovani.
Noi, per esempio, abbiamo lanciato il progetto "Passaporto Raselli", che coinvolge i singoli reparti dell’azienda: chi prova un reparto riceve un timbro sul “passaporto” e, successivamente, realizza una relazione video. Questo approccio consente di coinvolgere i giovani in modo diverso, offrendo loro una visione a medio-lungo termine.
Il suo pensiero sul futuro della gioielleria?
Premesso che la gioielleria deve essere meno ciclica rispetto alla moda, mi piacerebbe vedere tendenze meno massificate. Oggi anche i grandi marchi faticano a distinguersi, sono troppo allineati al mercato. Devono recuperare la propria identità e tornare a quel carattere fondante di rilevanza e unicità.
Bisogna riflettere maggiormente sul prodotto, che deve tornare a essere il vero protagonista.